Nel corso degli scavi di Pompei sono stati rinvenuti i resti di oltre mille vittime dell’eruzione del 79 d.C. Durante la prima fase eruttiva gli abitanti che non si erano allontanati in tempo dalla città rimasero intrappolati negli ambienti invasi da pomici e lapilli o furono investiti dai crolli provocati dal materiale eruttivo depositatosi fino a un’altezza di circa tre metri; di queste vittime si sono rinvenuti soltanto gli scheletri. Successivamente un flusso piroclastico, ad alta temperatura, investì Pompei a grande velocità, riempiendo gli spazi non ancora invasi dai materiali vulcanici e provocando la morte istantanea per shock termico di chi era ancora in città. I corpi di queste vittime rimasero nella posizione in cui erano stati investiti dal flusso piroclastico, e il materiale cineritico solidificatosi ne ha conservato l’impronta dopo la decomposizione. Poco più di un centinaio di calchi sono realizzati a partire dal 1863, grazie al metodo perfezionato da Giuseppe Fiorelli. I calchi delle vittime, esposti in vetrine di metallo e vetro, sono molto ammirati già nel primo “Museo Pompeiano”, allestito da Fiorelli nel 1873-1874. I numerosi calchi realizzati nel corso del Novecento sono invece generalmente lasciati a vista sul luogo del rinvenimento, in vetrine o protetti da tettoie; tra questi i tredici corpi, ancora oggi in situ, da cui prende nome l’Orto dei Fuggiaschi. I calchi sono anche oggetto di ispirazione per poeti e artisti, tra i quali Primo Levi, con la poesia “La bambina di Pompei”, e Roberto Rossellini, che dedica alla scoperta di alcuni calchi una celebre scena del “Viaggio in Italia”.
Purtroppo molti dei calchi esposti sono distrutti o gravemente danneggiati dai bombardamenti del 1943, anche se il paziente lavoro di Maiuri e collaboratori ne ha consentito un parziale recupero. Tuttavia i calchi sopravvissuti agli eventi bellici non trovano posto nel nuovo Antiquarium inaugurato nel 1948. Nell’ambito del Grande Progetto Pompei è stata avviata una ricognizione che ha permesso anche di ritrovare calchi che si ritenevamo dispersi; si è inoltre previsto il rilievo con laser scanner dei calchi conservati per la realizzazione, attraverso stampa 3D, di copie che si aggiungono a quelle in gesso o in resina prodotte in passato e sono destinate al prestito per mostre temporanee in tutto il mondo, mentre a Pompei sarà curata una nuova esposizione di questi preziosissimi reperti, persone prima che testimonianze o, meglio, testimoni davvero unici della tragedia del 79 d.C.

 

I Calchi dell’Ottocento

Giuseppe Fiorelli fu senza dubbio il più importante archeologo che operò a Pompei nell’Ottocento. Ispettore ordinario negli Scavi di Pompei dal 1847 e in seguito direttore degli scavi dal 1860 al 1875, ebbe tra numerosi meriti, quello dell’invenzione del metodo per eseguire i calchi delle vittime dell’eruzione.
Così scrive Gaetano De Petra, uno dei suoi successori: “La più fortunata delle sue invenzioni fu la immagine autentica che diede della catastrofe vesuviana, colando nel masso di cenere che copriva  gli scheletri il gesso liquido, per cui questi rivivono nelle forme e nelle contrazioni della loro agonia.”
Lo scrittore Luigi Settembrini aggiunge, a proposito dei calchi: ” E’ impossibile vedere quelle tre sformate figure, e non sentirsi commosso..Sono morti da diciotto secoli, ma sono creature umane che si vedono nella loro agonia. Lì non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa, le reliquie della loro carne e de’ loro panni mescolati col gesso: è il dolore della morte che riacquista corpo e figura…. Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi; ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoverto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente“.
Già nel 1823 il direttore degli scavi Antonio Bonucci aveva segnalato l’impronta lasciata nella cenere da una porta, ma fu nel 1856 che si pensò di ricavare col gesso il calco in un analogo caso. Fu solo tra il 2 e il 5 febbraio del 1863 che Giuseppe Fiorelli sperimentò tale tecnica per le vittime: durante lo scavo del vicolo tra le insulae VII 9 e VII 14, che venne denominato Vicolo degli Scheletri, si rinvennero i corpi di quattro individui e si eseguirono i primi calchi: un uomo, una donna caduta sul fianco destro, una fanciulla caduta bocconi con il capo sul braccio sinistro, una donna caduta sul fianco sinistro e con il volto coperto, definita “donna incinta” per l’addome gonfio.
Il 12 marzo del 1868, durante lo scavo di una stanza della Casa di Marcus Gavius Rufus (VII 2, 16) si rivennero sette scheletri e di uno di essi – un uomo caduto bocconi – fu possibile eseguire il calco. Di esso esistono alcune fotografie che lo illustrano capovolto e non nella sua posizione originaria, in modo da mettere in risalto il volto che sembra atterrito. Il 4 marzo 1871, nel vicolo tra IX 2 e IX 3, fu realizzato un altro calco: un uomo supino con sandali ai piedi. Il 25 settembre 1873 durante lo scavo del giardino nella casa I 5,3 si eseguì il calco di un uomo adagiato sul fianco sinistro, quasi assopito.
Il 20 novembre 1874 si realizzò il calco del cane nella Casa di Orfeo, mentre il 23 aprile 1875, presso l’angolo nord-est della stessa insula VI 14, si eseguirono due nuovi calchi di vittime umane, al centro della strada e a quattro metri dal suolo: una donna bocconi e un uomo supino. Il 24 gennaio del 1882, nel vicolo tra le insulae VIII 5 e VIII 6 si eseguì il calco di un bambino, caduto bocconi sul fianco sinistro. Ad esso si aggiunsero nel 1889 i calchi di tre individui (due uomini e una donna) rinvenuti presso Porta Stabiana e quelli di altri tre uomini ed una donna rinvenuti nella stessa zona l’anno successivo.

I Calchi nel Novecento
Dopo le esperienze dell’Ottocento, negli anni seguenti si proseguì nell’applicazione del metodo del Fiorelli per la realizzazione dei calchi di vittime, ma essi vennero in genere lasciati sul luogo del ritrovamento o in ambienti coperti dello stesso edificio, adeguatamente protetti da teche in vetro; si possono ricordare in proposito i 4 calchi del giardino della Casa del Criptoportico, rinvenuti insieme ad altri 5 individui di cui non fu possibile fare il calco, eseguiti sotto la direzione di Vittorio Spinazzola nel 1914. Con Amedeo Maiuri, a partire dal 1923, i calchi esposti nell’Antiquarium vennero risistemati anche se lo spazio a disposizione era diventato esiguo, mentre si realizzarono altri calchi tra cui quello di un uomo rannicchiato e piegato in avanti, con addosso un mantello, rinvenuto nella grande palestra. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Maiuri ridusse con una nuova sistemazione il numero dei calchi esposti nell’Antiquarium, gravemente danneggiati. A lui si deve inoltre la scoperta, nel 1961, del più famoso gruppo di vittime –  i tredici individui del cosiddetto Orto dei Fuggiaschi (I 21,2) – e di cui lasciò esposti i calchi in un angolo del grande vigneto dove avevano trovato la morte. Risale invece agli anni Settanta l’esecuzione di quindici calchi durante lo scavo presso Porta di Nola, via d’uscita della città verso nord-est che, come le altre, non portò alla salvezza.

Nel 1984 fu utilizzata invece una diversa tecnica per la riproduzione  dei calchi : fu realizzato infatti un calco in resina eseguito su una delle vittime venute alla luce in un ambiente della Villa di Lucius Crassius Tertius di Oplontis. Quest’ultimo sistema sperimentato integra il metodo del calco in gesso ideato da Fiorelli con quello della fusione a cera della statuaria in bronzo, permettendo di realizzare un calco trasparente che rende visibile lo scheletro, consentendo l’individuazione e il recupero di gioielli e oggetti che le vittime portavano con sé al momento della fuga.

 

Le fasi di realizzazione di un calco

(disegni di U. Cesino)

Il metodo ideato da Giuseppe Fiorelli ed utilizzato tuttora per la realizzazione di calchi è molto semplice. Quando l’archeologo esegue uno scavo nell’area vesuviana, trova una particolare stratigrafia dovuta alle modalità del seppellimento e al susseguirsi delle diverse fasi che si sono succedute durante l’eruzione.
La prima fase dell’eruzione fu caratterizzata dalla caduta di lapilli, una sorta di grandine di pomici di piccola dimensione che ricoprì gli spazi aperti, le strade e i cortili, facendo crollare i tetti di alcune abitazioni. Successivamente vi fu invece la fase di caduta di cenere che penetrò ovunque riempiendo ogni vuoto ed avvolgendo ogni cosa, alternata al susseguirsi di flussi piroclastici, le cosiddette “nubi ardenti” che a forte velocità ed alta temperatura percorsero in più ondate il territorio provocando distruzione e morte. La cenere, indurita, costituisce quello che viene comunemente chiamato “tuono”, uno strato molto resistente.
E’ in questa cenere indurita che spesso gli archeologi rinvengono dei vuoti, causati dalla decomposizione di sostanze organiche: può trattarsi di elementi in legno come mobili, infissi, oggetti ma anche di corpi degli individui.
Nel vuoto viene quindi versata una miscela di gesso ed acqua fino a riempirlo totalmente. Lasciato asciugare il gesso, si può procedere nello scavo e si mette in luce ciò che aveva determinato il vuoto: la cenere indurita ha conservato infatti, come uno stampo, il volume, la forma e la posizione dell’oggetto o del corpo che era stato sepolto.
Questa impronta di gesso solidificato è chiamato calco. Può includere alcune parti che non si sono decomposte, per esempio le ossa dell’individuo o gli oggetti in metallo che indossava o recava con sè; può presentare sulla superficie l’impronta della trama dei tessuti che lo ricoprivano e che si sono anch’essi decomposti o di cui restano talvolta solo minime tracce.
In questi particolari casi dunque, a differenza di tutti gli altri siti archeologici, non si conservano solo gli scheletri degli individui, ma addirittura la loro forma reale, il loro aspetto esterno, il loro abbigliamento, le loro fattezze, i loro gesti, anche se quelli tragici della loro agonia.