Dopo la catastrofe del 79 d.C. in cui il Vesuvio seppellì due intere città e tutto il territorio dalle sue pendici occidentali e meridionali fino al mare, compresa la fertile piana del Sarno, l’imperatore Tito incaricò due magistrati di intervenire in favore della Campania e assegnò i beni di coloro che erano morti durante l’eruzione senza lasciare eredi alla ricostruzione  delle città distrutte, come riferisce lo storico Svetonio, ma data la gravità della situazione si recuperò quanto possibile e i luoghi furono abbandonati.

Gli stessi pompeiani superstiti recuperarono una parte degli averi e delle suppellettili preziose dalle loro case, seguiti da generazioni di ladri che operarono nei secoli successivi, spesso eseguendo a casaccio cunicoli al di sotto dello strato di cenere consolidata, azioni segnalate spesso nei successivi giornali di scavo e di cui si notano ancora le tracce: le brecce in sequenza scavate nei muri degli ambienti depredati. L’area della città divenne una grande cava di materiali (marmi, blocchi di pietra, piombo), come dimostra l’asportazione del rivestimento marmoreo nelle Terme suburbane, nel Foro e in molte abitazioni, la scomparsa dei marmi e dei blocchi in pietra di parte dei sedili nei Teatri e nell’Anfiteatro,  e l’assenza delle vasche d’accumulo e delle tubature dell’impianto idrico sui torrini dell’acquedotto.

La collina della Civita, ricoperta dal materiale eruttivo da cui fuoriuscivano porzioni dei piani superiori degli edifici, divenne un sito disabitato dove tuttavia l’uomo ritornò per coltivare, utilizzando l’area come luogo di sepoltura. In alcuni casi le strutture emergenti furono riutilizzate per altri scopi, come attesta la costruzione di un forno in un ambiente voltato che si affaccia dal costone meridionale sulla piana o le strutture che vennero edificate sopra le Terme femminili del Foro. Anche all’esterno della città, lungo la viabilità ripristinata, vennero recuperati alcuni degli edifici sepolti. Il caso più significativo è quello delle terme in località Moregine,  rinvenute durante la costruzione dell’autostrada Napoli-Salerno alla periferia meridionale di Pompei: l’edificio fu riutilizzato in parte con la sistemazione di un pavimento in lastre fittili poste sopra il banco di cenere dell’eruzione del 79 d.C., finché un’altra eruzione non lo seppellì di nuovo decretando il definitivo abbandono del complesso.

Alla fine del Cinquecento, per condurre l’acqua dai monti di Sarno ai suoi pastifici di Torre Annunziata, il conte Muzio Tuttavilla fece costruire dall’architetto Domenico Fontana un canale che attraversò l’intera collina della Civita, e dunque anche l’antica città, senza che venisse dato peso ai rinvenimenti di strutture, oggetti ed iscrizioni durante lo scavo.

I tempi non erano ancora maturi e bisognerà attendere il 1748, anno in cui il re Carlo III di Borbone, dopo dieci anni di esplorazioni ad Ercolano, decise di scavare sulla collina della Civita dove vi erano strutture affioranti. Gli scavi continuarono con fasi alterne sotto i suoi successori, durante il dominio francese, nella successiva fase di restaurazione borbonica e, dopo l’Unità d’Italia, continuano a cura dello Stato fino ai giorni nostri.

Grete Stefani