A partire dal confronto fra le rispettive metodologie di ricerca, ambiti disciplinari, collezioni, Pompei@Madre. Materia Archeologica consiste nello studio delle possibili, molteplici relazioni fra patrimonio archeologico e ricerca artistica e propone un dialogo fra straordinari ma poco conosciuti e raramente esposti materiali archeologici di provenienza pompeiana e opere d’arte moderna e contemporanea.
La mostra, presentata su gran parte degli spazi espositivi del museo Madre, è articolata in due capitoli:
Pompei@Madre. Materia Archeologica (terzo piano): 19 novembre 2017-30 aprile 2018
Pompei@Madre. Materia Archeologica: Le Collezioni (ingresso e primo piano): 19 novembre 2017-9 gennaio 2019
Il percorso della mostra – avviato con Pompei@Madre. Materia Archeologica: le Collezioniall’ingresso e al primo piano del Madre – continua al terzo piano del museo, con Pompei@Madre. Materia Archeologica, perlustrazione circolare fra opere, manufatti, documenti e strumenti connessi alla storia delle varie campagne di scavo a Pompei, a partire dalla riscoperta del sito nel 1748, messi a confronto con opere e documenti moderni e contemporanei. Provenienti da collezioni pubbliche e private, italiane e internazionali, ognuna di queste opere e documenti ha continuato a rivendicare negli ultimi due secoli e mezzo il valore e l’ispirazione contemporanei della “materia archeologica” pompeiana, fungendo da vettore fra spazi, tempi e culture differenti, continuando a metterli a confronto fra loro e agendo come un vero e proprio portale spazio-temporale, che ha contribuito a definire la modernità europea nel suo stesso farsi. Per questo in mostra si coniugano, anche solo per accenni, arti visive, letteratura, musica, teatro, cinema, storiografia, cartografia, paletnologia, antropologia, biologia, botanica, zoologia, chimica, fisica, genetica, nonché l’esteso campo delle nuove tecnologie. Nel tentativo di definire ipotetici paralleli che attraversano la storia antica, moderna e contemporanea, la mostra racconta la storia di una “materia” che dopo l’eruzione del 24 agosto 79 d.C. fu dapprima costretta a una dormienza millenaria, ma che dopo la sua riscoperta nel 1748 è stata soggetta a cicliche riscoperte, come quelle operate dai tanti viaggiatori del Grand Tour. Pur soggetta a nuove, drammatiche catastrofi – come i danneggiamenti subiti a causa dei bombardamenti angloamericani durante il secondo conflitto mondiale, a partire da quello del 24 agosto del 1943 – Pompei fu altrettanto soggetta ad ulteriori rigenerazioni, disponibile quindi a nuovi attraversamenti e narrazioni. Una materia viva. Al poeta Goethe, che nel 1787 scriveva che “di tutte le catastrofi che si sono abbattute sul mondo, nessuna ha provocato tanta gioia alle generazioni seguenti”, sembra già rispondere nel 1804 un altro scrittore, Chateaubriand, quando visita “una città romana conservata nella sua interezza, come se gli abitanti fossero andati via un quarto d’ora prima”. E dopo di loro tanti altri artisti ed intellettuali, fino a giungere al presente e alle opere dei tanti artisti e intellettuali contemporanei in mostra. È la storia di questa “materia archeologica”, al contempo fragile e combattiva, archetipica e effimera, che ha permesso a Pompei di continuare ad essere contemporanea, ed è appunto questa la storia raccontata da questa mostra.
Anche al terzo piano, come nell’atrio di ingresso e al primo piano, la suddivisione per sale della mostra prescinde da un criterio cronologico, articolando una narrazione in più capitoli in cui ogni opera, indipendentemente da datazione, provenienza o caratteristiche, si richiama alle altre poste in sala. Il percorso è introdotto dalla presentazione di alcuni giornali di scavo (1780; 1853) e dal primo dei diari-regesto che documentano le distruzioni avvenute nel 1943, circondati da strumenti di lavoro quotidiano degli archeologi (pale, picconi, pennelli, ceste, setacci, squadre da cantiere, lanterne, insegne e portantine) e da una cartografia che mostra una veduta aerea di Pompei realizzata nel 1910 con un pallone aerostatico. Il centro della sala è dominato dalla presenza di alcuni massi su cui, come superfetazioni, crescono e prendono forma alcuni elementi organici o inorganici: sono le opere di Adrián Villar Rojas. In un primo cortocircuito fra plausibile e implausibile, invece di un ritrovamento archeologico ciò che ci appare di fronte è un’opera contemporanea. Dopo una vetrina-libreria in cui è raccolta la storia bibliografica della fascinazione verso la “materia archeologica” pompeiana nel corso di più di due secoli e mezzo, insieme a un’opera testuale di Darren Bader e un disegno che registra la caduta di polveri vulcaniche di Renato Leotta, in mostra si susseguono sale in cui i documenti moderni – stampe acquerellate, fotografie, oggetti d’arredo, manufatti unici o moltiplicati (veri e propri multipli d’epoca) – si integrano con frammenti e manufatti archeologici e con opere contemporanee. Le acquetinte della serie Vues pittoresques de Pompéi di Jakob Wilhelm Hüber, allievo del pittore Jacob Philipp Hackert e figura seminale per la genesi della Scuola di Posillipo, procedono verso le stampe di recupero di Roman Ondák in cui l’artista inserisce, più di due secoli dopo, un suo impossibile autoritratto a matita quale testimone degli stessi eventi. Nella sequenza fotografica di immagini che documentano il susseguirsi delle campagne di scavo pompeiane irrompe la teoria delle colonne di Basilica I e Basilica II di Victor Burgin, il cui soggetto è a sua volta contraddetto e allo stesso tempo riaffermato dalle materializzazioni tridimensionali e fantasmatiche della colonna spezzata di Maria Loboda, della base bianco-oro di Iman Issa, del profilo architetturale di Rita McBride, del profilo scultoreo di Mark Manders e da una fotografia di Luigi Ghirri. Si portano in primo piano decorazioni parietali e musive che, con i vari stili pompeiani di rappresentazione illusiva, si offrono al punto di vista sia della camera fotografica analogica di Nan Goldin e Mimmo Jodice che a quello digitale dell’arazzo di Laure Prouvost o a quello compendiario del bassorilievo in ceramica di Betty Woodman, che sembra plasmato con la stessa curiosità che anima le copie moderne, disegnate a matita o realizzate in terraglia a rilievo, del grande mosaico della battaglia di Isso. Gli schizzi e gli studi di dettagli architettonici eseguiti da Claude-Ferdinand Gaillard, Pierre Gusman e Jules-Leon Chiffot fra il 1861 e il 1927 si combinano con frammenti di domus originarie, mentre il teatrino di Fausto Melotti sorretto dalla struttura metallica in rosso pompeiano di Thea Djordjadze fa da sfondo a due biscuit della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte e ad un’opera in pietre dure coeva che replica il Tempio di Iside, il primo santuario rinvenuto integro a Pompei, nel 1764. Nella stessa sala, i disegni di Le Corbusier esplorano le caratteristiche biodinamiche della domus pompeiana – nel suo equilibrio fra interno ed esterno, componenti architettoniche e rapporto con l’ambiente circostante, struttura e parati decorativi – affermando un’esperienza spaziale contraria alla retorica simbolica e antidemocratica dei monumenti romani. E se una parete dell’affresco del Bracciale d’oro è posta in relazione con una parete in vernice argentea spruzzata con un idrante e solcata dalle piccole tele di Pádraig Timoney, le eteree installazioni ambientali di Haris Epaminonda sembrano richiamate dalle ciotole con polveri multicolori rinvenute a Pompei o da uno dei loro prodotti finali: un affresco staccato con una figura femminile inquadrata da due ghirlande vegetali e portata in trionfo da un gruppo di elefanti. La sala centrale della mostra si apre invece su una serie di vedute della campagna vesuviana, con il vulcano in eruzione: un’eruzione che – come in un piano-sequenza cinematografico che riprende, in una panoramica circolare, l’intera sala – sembra continuare ininterrotta dalla metà del Settecento, con varie vedute di epoca neoclassica, romantica e naturalistico-verista (da Johan Christian Dahl, Joseph François Désiré Thierry, Pierre-Henri de Valenciennes e Pierre-Jacques Volaire a Gioacchino Toma), fino gli anni Ottanta del XX secolo, con un esemplare dei Vesuvius by Warhol, per fermarsi provvisoriamente all’anno stesso della mostra con l’opera Untitled di Wade Guyton. Al centro della sala – in un silenzioso confronto con le opere in marmo e pietra di Trisha Donnelly e Christodoulos Panayiotou da cui affiorano accenni di un’ipotetica figurazione – sono collocati, in due grandi vasche-deposito, cumuli di “materia archeologica” pompeiana lapidea e ceramica, a dare rappresentazione al flusso di questa materia fra epoche, mezzi, stili e sensibilità differenti ma coesistenti. La sala adiacente ospita del resto, su un pavimento in creta di Petra Feriancová, materie pure in trasformazione, dall’assemblage di Robert Rauschenberg Pompeii Gourmet allo pneumatico-foglia di Mike Nelson. Dopo una sala dedicata a una museografia congetturale e immaginifica – affidata al peep-show e alle vetrine hamiltoniane di Mark Dion, mischiate a reperti reali e oggetti moderni e inquadrate dal “pittore di fuoco” di Ernesto Tatafiore – le sale successive si svolgono come un epicedio dedicato alla morte: la morte di ogni cosa, di ogni essere umano e di ogni animale e vegetale sotto la pioggia di lapilli, ceneri e pomici del 79 d.C. In una diacronia rituale che livella apparentemente tutto, dall’ufficio fossilizzato di Jimmie Durham si procede ai documenti di Operazione Vesuvio – con cui, nel 1972, il critico e curatore Pierre Restany propose a vari artisti di trasformare l’area vesuviana in un “parco culturale”, una gigantesca opera di Land Art – fino all’identificazione fra terra e cielo nella tela ruvida, dipinta da Salvatore Emblema alle falde del Vesuvio, che li accoglie entrambi. Da un armadio ossario proveniente dai magazzini di Pompei si procede ai giganteschi profili stanti su teschi immacolati del Terrae Motus di Nino Longobardi, ai crani/pani in bianco e nero di Antonio Biasiucci, al bassorilievo in materiale plastico di un bomber bianco di Seth Price, alle sedute-impronte corporali di Nairy Baghramian. E dal calco del “cane di Pompei” – tecnica, quella del calco, messa a punto e pubblicizzata fra il 1863 e il 1868 dall’allora Direttore di Pompei, Giuseppe Fiorelli – si procede alla sua moltiplicazione seriale ad opera di Allan McCollum, fino alle vetrine con uccelli in progressivo e lento disfacimento di Roberto Cuoghi. Ma è a questo punto che compare, in una vetrina climatizzata, una tassonomia di materiali organici, i resti di quella vita che a Pompei rimase sepolta, carbonizzata, frammentata, ma non annichilita: semi, arbusti, frutti, conchiglie, ossa, uova, pani, tessuti. È da quella vita, pazientemente raccolta e sapientemente studiata da archeologi, agronomi e botanici, antropologi e zoologi, chimici e fisici, che la vita a Pompei potrebbe rinascere… dalle sue stesse ceneri. Come sembrano suggerire i vasi zoomorfi e le maschere antropomorfe rinvenuti anch’essi a Pompei, a cui sembra ispirarsi, attraverso l’ipotetica mediazione del vaso-rovina di Ettore Sottsass, Goshka Macuga nel ripercorre la storia del “secolo breve” appena concluso, affidandola alle sue più rivoluzionarie icone intellettuali, dalle cui teste germogliano fiori. Ed ecco che infine (ma in realtà là dove il percorso in loop della mostra si riallaccia al suo inizio) a Maria Thereza Alves è affidato il compito di prelevare alcuni semi da un vero e proprio giardino – che cresce nell’ultima sala della mostra secondo uno schema rinvenibile anche nel collage di Bill Beckley – da cui nasceranno non solo nuove piante ma, rintracciando l’origine storica di quegli stessi semi e quindi la loro meticcia matrice multi-culturale, nuove storie. Perché Pompei resti sempre… una materia contemporanea.
Pompei@Madre. Materia Archeologica: Paweł Althamer, Maria Thereza Alves, Darren Bader, Nairy Baghramian, Philip Barker, Bill Beckley, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Antonio Biasiucci, Carlo Bonucci, François Pierre Hippolyte Ernest Breton, Edward Bulwer-Lytton, Victor Burgin, Andrea Carandini, François-René de Chateaubriand, Jules-Leon Chifflot, Annamaria Ciarallo, Roberto Cuoghi, Johan Christian Dahl, Cesare De Seta, Mark Dion, Thea Djordjadze, Trisha Donnelly, Jimmie Durham, Salvatore Emblema, Haris Epaminonda, Petra Feriancová, Giuseppe Fiorelli, Friedrich Furchheim, Claude-Ferdinand Gaillard, William Gell, Luigi Ghirri, Johann Wolfgang Goethe, Nan Goldin, Jules Gourdault, Pierre Gusman, Wade Guyton, Sir William Hamilton, Edward C. Harris, Tonio Hoelscher, Jakob Wilhelm Hüber, Iman Issa, Wilhelmina Feemster Jashemski, Wilhelm Jensen-Sigmund Freud, Mimmo Jodice, Le Corbusier, Renato Leotta, Jean Marie Le Riche, Maria Loboda, Nino Longobardi, Malcolm Lowry, Goshka Macuga, Amedeo Maiuri, Mark Manders, Giuseppe Marsigli, August Mau, Charles-François Mazois, Rita McBride, Allan McCollum, Fausto Melotti, Mike Nelson, Felice e Fausto Niccolini, Roman Ondák, Operazione Vesuvio, Johann Friedrich Overbeck, Christodoulos Panayiotou, Marcel Péchin, Pink Floyd (& Adrian Maben), Francesco Piranesi, Seth Price, Laure Prouvost, Robert Rauschenberg, Jean-Claude Richard de Saint-Non, Salvatore Settis, Ettore Sottsass, Susan Sontag, Vittorio Spinazzola, Madame de Staël, Stendhal, Ernesto Tatafiore, Joseph François Désiré Thierry, Pádraig Timoney, Gioacchino Toma, Mario Torelli, Pierre-Henri de Valenciennes, Adrián Villar Rojas, Pierre-Jacques Volaire, Andy Warhol, Sir Mortimer Wheeler, Johann Joachim Winckelmann, Betty Woodman. E tutte e tutti gli artisti, gli intellettuali e gli artefici delle opere, dei manufatti e delle testimonianze, organiche e inorganiche, della città di Pompei.
Il progetto è realizzato in collaborazione tra il Madre di Napoli e il Parco Archeologico di Pompei. Per il Madre le mostre Pompei@Madre. Materia Archeologica (nell’ambito del progetto Prosecuzione e consolidamento del museo MADRE) e Pompei@Madre. Materia Archeologica: Le Collezioni (nell’ambito del progetto Itinerari del Contemporaneo-Confronti) sono realizzate integralmente con fondi POC (PROGRAMMA OPERATIVO COMPLEMENTARE) 2014-2020 Regione Campania e attuate dalla SCABEC SpA, Società Campana Beni Culturali, che ne cura tutti gli aspetti organizzativi.
Il catalogo della mostra è edito da Electa, che supporta come sponsor tecnico l’intero progetto editoriale. La pubblicazione scientifica contiene testi di Luigi Gallo, Massimo Osanna, Andrea Viliani insieme a un visual essay composto dalle immagini e dai dati di tutte le opere, i manufatti e i documenti in mostra.