La possibilità di ricostruire, grazie alla collaborazione tra archeologi, antropologi e vulcanologi, gli ultimi istanti di vita di uomini, donne e bambini periti durante una delle più grandi catastrofi naturali dell’antichità, conferisce a chi scava a Pompei una responsabilità particolare. Inoltre, l’opportunità di riconoscere nelle vittime e nelle loro scelte di cercare riparo o di tentare la fuga, di prendere certi oggetti con sé e lasciare altri indietro, fa emergere un comune sfondo di umanità. A volte, però, tale senso di comunità umana rischia di farci dimenticare che per gli antichi la catastrofe doveva essere ancora più mostruosa e inconcepibile di quanto noi oggi possiamo immaginare, dal momento che si ignorava cosa esattamente fossero i vulcani e da che cosa nascessero i terremoti. Lo stesso fatto che il Vesuvio fosse un vulcano, era noto presumibilmente a pochi autori dotti (ne abbiamo qualche traccia in Strab. 1, 2, 18; 5, 4, 8; Diod. 4, 21, 5; Vitr. 2, 6, 2-3), mentre la maggioranza della popolazione ne era verosimilmente all’oscuro. Il grado di alfabetizzazione nella Pompei d’età imperiale e nel mondo romano più in generale è oggetto di dibattito, ma si conviene generalmente che era basso come in tutte le società preindustriali. Solo una parte della popolazione sapeva leggere e scrivere, e di questi solo un piccolo gruppo aveva accesso a testi come quelli di Strabone e di Vitruvio sopra menzionati.
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